Operatori sanitari a rischio di infezione

Ogni anno in Italia sono circa 130.000 gli incidenti occupazionali a rischio biologico negli operatori sanitari. Un incidente su 5 di quelli notificati nel nostro Paese si verifica con un paziente “fonte” portatore di epatite B, epatite C o HIV. Dal primo Osservatorio Italiano 2017 sulla Sicurezza per gli operatori sanitari, due infermieri su tre ammettono di mettere in pratica almeno un comportamento che li mette a rischio e la metà degli incidenti non viene denunciata dagli operatori, il più delle volte per sottovalutazione del rischio o per modalità di notifica troppo complesse.
Tra tutti gli incidenti a rischio biologico, uno su quattro riguarda contaminazioni mucose e cutanee con sangue e altri liquidi biologici, mentre 3 su 4 da da punture accidentali con aghi e lesioni da strumenti taglienti, pari a centomila casi
In assenza di interventi preventivi tecnologici o terapeutici, secondo l’OMS nel mondo ogni anno si verificano oltre 3.000.000 di incidenti causati da strumenti pungenti o taglienti contaminati con HIV o virus dell’epatite B e C; questi causano il 37% delle epatiti B (pari a circa 66.000 casi), il 39% delle epatiti C (pari circa a 16.000 casi) e il 4,4% delle infezioni da HIV (pari circa a 1.000 casi) contratte dagli operatori sanitari, cioè almeno 83.000 infezioni ogni anno direttamente riconducibili ad un’esposizione professionale, di tipo percutaneo, a materiali biologici infetti.[2]

Sono questi i temi più importanti affrontati in occasione del 6° Summit organizzato dall’European Biosafety Network. I referenti delle istituzioni europee e italiane, nonché delle associazioni professionali della sanità, si sono confrontate per fare il punto sulle procedure di sicurezza all’interno degli ospedali italiani e per individuare le possibili azioni da intraprendere per garantire la sicurezza a tutti gli operatori sanitari. «L’Italia ha una eccellente legislazione sulla sicurezza del lavoro, tuttavia per quanto attiene l’adozione dei dispositivi di sicurezza, che dovrebbero andare a sostituire gli strumenti che l’operatore usa quotidianamente per svolgere il suo lavoro e che lo mettono a rischio di infezioni, molto deve essere ancora fatto. – dichiara Gabriella De Carli, infettivologa dello Studio Italiano Rischio Occupazionale da Hiv presso l’Istituto Nazionale per le Malattie InfettiveLazzaro Spallanzani”(Irccs) – Anche i più recenti dati disponibili evidenziano infatti ancora una disomogeneità di utilizzo a livello italiano. C’è sicuramente una maggiore attenzione al problema, ma molto resta da fare. Abbiamo evidenziato come, implementando tutti gli interventi preventivi previsti che includono l’adozione di aghi e dispositivi di sicurezza, si possa ridurre drasticamente il fenomeno infortunistico come è già stato dimostrato negli ospedali del gruppo Siroh, e in alcuni paesi europei e extra europei: serve ora un’azione coordinata». Secondo i dati del Ministero della Salute relativi agli acquisti nel settore pubblico la percentuale di conversione da dispositivi convenzionali a dispositivi di sicurezza è pari a poco più della metà relativamente ai soli dispositivi per accesso venoso periferico (gli aghi cannula), i più pericolosi poiché raccolgono e trattengono sangue, primo veicolo di infezione se l’operatore si punge, e decisamente inferiore per gli altri dispositivi più comuni (come dispositivi per prelievo, aghi, siringhe con ago, etc.). Si evidenzia quindi un processo che si sta avviando, ma indubbiamente ancora da completare. «L’infermiere, seguendo il paziente 24 ore su 24, è colui che ha più degli altri a che fare con taglienti e pungenti come gli aghi per le flebo, per la terapia iniettiva e per i prelievi, bisturi, forbici e quanto altro per il cambio delle medicazioni, e purtroppo è ancora elevato il numero di infortuni a rischio biologico derivante da queste ferite: il 63% degli incidenti coinvolgono aghi cavi, la metà dei quali pieni di sangue, il 19% aghi pieni, il 7% bisturi. Circa il 75% delle esposizioni si verifica quindi in relazione a procedure per le quali sono in larga misura disponibili dispositivi intrinsecamente sicuri» specifica Barbara Mangiacavalli, Presidente Federazione Nazionale Collegi Infermieri (Ipasvi) «Possiamo affermare che gli infermieri sono la categoria maggiormente esposta al rischio anche perché rappresentano i 2/3 del totale degli operatori. Recenti dati hanno messo in evidenza che questo tipo di ferite coinvolge proprio questi professionisti tra il 51% e il 58% dei casi, e infatti la maggioranza dei casi di infezione occupazionale osservati si sono verificati in infermieri». In occasione del Summit, sono stati presentati per la prima volta i risultati dell’Osservatorio Italiano 2017 sulla Sicurezza di Taglienti e Pungenti per gli operatori sanitari, una ricerca realizzata da GfK Italia che vede coinvolti 70 ospedali pubblici, 150 infermieri, 70 Direttori Sanitari, 70 responsabili dei Servizi di Prevenzione e Protezione (Rspp), 15 responsabili di Servizio Infermieristico Tecnico e Riabilitativo Aziendale (Sitra) o Direzione Infermieristica Tecnica Riabilitativa Aziendale (Ditra) per capire e analizzare sul campo il comportamento degli operatori. Per quanto riguarda la manipolazione di aghi e taglienti i dati emersi dall’Osservatorio evidenziano alcune criticità: due infermieri su tre ammettono di mettere in pratica almeno un comportamento che li mette a rischio di incidenti per puntura o taglio (66%); un terzo degli infermieri (32%) reincappuccia gli aghi usati, manovra esplicitamente proibita dal 1990 e ulteriormente ribadita nella nuova legislazione. Anche lo smaltimento dei dispositivi contaminati nel 40% dei casi avviene in contenitori impropri, generando anche per il personale non sanitario, come ad esempio gli addetti alle pulizie, il rischio di pungersi. «Gli operatori sanitari purtroppo antepongono spesso la sicurezza del paziente allo loro e, per assistere nell’immediato il paziente, mettono a rischio se stessi. – commenta De Carli – Certamente fornire dispositivi più sicuri per le procedure a rischio e per lo smaltimento è necessario, ma non sufficiente. Occorre operare un cambiamento culturale, a partire dai Direttori Generali delle aziende sanitarie, che vanno coinvolti nel processo decisionale relativo all’allocazione delle risorse per la sicurezza, fino al singolo operatore, che non deve mai sottostimare i rischi». Oggi la necessità da parte degli ospedali di contenere la spesa mette spesso la struttura a rischio di dover sostenere un domani costi ben più elevati per la gestione degli incidenti professionali. Solo per fare un esempio, infatti, il costo di routine per un evento di esposizione percutanea, una puntura d’ago per intenderci, che mette l’operatore a rischio di contrarre un’infezione da HIV, HCV, HBV è di oltre 850 euro (in questa cifra sono inclusi i costi di reporting, test sierologici per identificare la presenza del virus, e la profilassi post esposizione, per i casi considerati a rischio)[3], senza contare l’impatto sulla vita personale e di relazione che il rischio di aver contratto un’infezione da virus determina nell’operatore, che può aver bisogno di un supporto psicologico, e nei suoi familiari. «Con l’adozione di opportuni piani di prevenzione, formazione e introduzione dei dispositivi sicuri, si potrebbero evitare fino a 53.000 incidenti a rischio biologico, 550.000 ore lavorative perse e 16.000 giornate di malattia. – conclude De Carli – Per dare un ordine di grandezza, ogni anno in Italia vengono spesi almeno 36 milioni di euro per far fronte alle conseguenze delle ferite accidentali da aghi cavi, cifra che potenzialmente potrebbe aumentare considerando che la metà degli incidenti non viene denunciata dagli operatori, il più delle volte per sottovalutazione del rischio o per modalità di notifica troppo complesse».

Nel video:

  • Gabriella DE CARLI
    Istituto Nazionale per le Malattie Infettive “Lazzaro Spallanzani”
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clipSALUTE il Tg di domenica 12 novembre 2017

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